Turchia: prove generali di una stravittoria annunciata
Domenica prossima, 12 settembre, i turchi andranno al voto: dovranno dire “sì” o “no” al pacchetto in 26 punti per riformare la costituzione, a cominciare dal sistema giudiziario e dalla nomina dei giudici. Domenica scorsa, a Istanbul, i sostenitori del “sì” erano in piazza Kızılçeşme, per un raduno organizzato dal partito di governo, Akp, finalizzato a promuovere la causa. L’area, un piazzale sterrato fuori dalla zona residenziale, può contenere circa mezzo milione di persone. La folla straborda. L’appuntamento è per le due: noi ci siamo, la pioggia pure.
Ma questo non disturba affatto le tante persone accorse ad ascoltare il proprio leader, il premier Recep Tayyip Erdoğan. Tengono alta la bandiera turca e quella del partito. Qua e là si intravede anche il drappo del Turkistan, simbolo del popolo turco, non quello della sola Repubblica turca, ma di tutto l’ethnos turco, che si estende su un’area immensa: tutta l’Asia Centrale e forse oltre. In particolare in Kazakhstan, Russia, Uzbekistan, Azerbaijan, Turkmenistan, Kirghizistan e Cina (la regione autonoma del Xinjiang, come la chiamano a Pechino oppure Uyguristan o Turkistan orientale, nella versione turca).
A proposito. Qualche giorno fa eravamo nella capitale, Ankara. In pieno centro una manifestazione: una trentina di persone gridano slogan in difesa degli uyguri, fratelli turchi. Le forze dell’ordine, in tenuta anti-sommossa, sono circa il triplo e ci rivolgiamo a loro, perché nessun altro sa una parola di inglese. Chi è questa gente? Ci dicono che si tratta di persone vicine al Mhp, il partito nazionalista, i lupi, con i quali abbiamo avuto un incontro a quattrocchi qualche mese fa. I manifestanti mostrano cartelloni eloquenti: “Cina assassina vattene dal Turkistan orientale”, “Fermiamo il genocidio degli uyguri”, “il Turkistan orientale è terra turca” e così via. Evidentemente il mito turanico e l’idea di Grande Turchia sono vivi, al di là delle fazioni politiche: tra Akp e Mhp non corrono infatti buoni rapporti.
Torniamo al mega raduno di domenica. Erdoğan si fa desiderare. Nell’attesa sfilano sul palco personalità della politica e della cultura, c’é il sindaco di Istanbul, ci sono alcuni dei principali ministri. Tra loro riconosciamo Ahmet Davutoğlu, capo della diplomazia, al quale ci interessiamo con una certa frequenza per la sua politica ad ampio raggio verso Oriente, per le relazioni audaci che sta cucendo tra Ankara e Mosca, Pechino, Teheran e Brasilia.
Sono quasi le quattro... arriva il grande capo: “Türkiye seninle gurur duyuyor!” (la Turchia è fiera di te!) urlano migliaia di persone letteralmente infervorate. Erdoğan, statura imponente, si muove con passo lento da una parte all’altra del palco, parla lentamente, scandisce con forza le parole, che una dopo l’altra eccitano il pubblico, che gli fa eco con motti di approvazione.
Accusa il Chp, il Partito repubblicano del popolo con il quale abbiamo parlato la scorsa settimana, di mettere in giro notizie false. Non si risparmia con il Mhp, i lupi, il cui leader Devlet Bahçeli accusa Erdoğan di aver trattato segretamente con il Pkk per ottenere voti favorevoli al referendum da parte del Bdp (il partito filo-curdo). In una recente pubblicazine del Mhp, una sorta di foglio di patito, il titolo di prima pagina fa proprio riferimento a questo. Sotto un fotomontaggio ritrae insieme Erdoğan, Barack Obama, Henry Barkey (professore universitario nordamericano, esperto di Turchia e Vicino Oriente legato al Carnagie endowment for interntional peace, in passato ha lavorato per il governo di Washington: membro della squadra del dipartimento di Stato che si occupa della pianificazione politica), Abdullah Öcallan e un altro personaggio della guerriglia curda. Nei sottotitoli si fa riferimento alla Cia...
Sul palco Erdoğan dice alla surriscaldata platea che ci sono due opzioni: “da una parte c’é la costituzione del colpo di Stato (quello del 1980, la Carta é stata redatta due anni dopo, ndr). Dall’altra parte c’é la costituzione della mia nazione”. E non è un caso che il referendum si tenga il 12 settembre: stesso giorno del golpe di trent’anni fa. Come dire: ricominciamo da allora. E ancora: “la Turchia dirà sì al referendum. Tutti quelli che vogliono una Turchia grande, una democrazia avanzata e libertà diranno sì. Coloro che vogliono venga stabilita la supremazia della legge diranno sì. Quelli che vogliono fermare le cricche diranno sì. Istanbul dice di sì” Ad ogni affermazione di Erdoğan la platea fa eco con un fragoroso “sì” (evet!). Un accenno a tutte le questioni possibili. L’islam e il velo, l’identità nazionale: “greci, armeni, ebrei, curdi, cristiani e musulmani: siamo tutti turchi” (inteso come cittadini della repubblica, senza distinzioni né preferenze). Fa riferimento ai tassi di crescita dell’economia: la Turchia in Europa é al primo posto, al quarto nel mondo. La gente approva le sue parole con una rumorosa ovazione, “la Turchia è fiera di te”, gli ricordano.
Il capo del governo di Ankara ha fatto comizi in tutto il Paese. Ogni volta l’accoglienza è questa. I sondaggi danno il “sì” vincente con il 55 per cento, punto più punto meno. Erdoğan può contare sull’elettorato del suo partito (alle ultime elezioni l’Akp ha sfiorato il 47 per cento) e a quanto pare anche sui voti di chi, pur sull’altra sponda politica, approva le ragioni del referendum: il nobel Orhan Pamuk é tra questi.
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