giovedì 23 settembre 2010

Catastrofe Iraq

23/09/2010

Original Version: Iraq: The forgotten ‘nakba’ 

A differenza della ‘nakba’ palestinese del 1948, la catastrofe irachena si è manifestata in un momento di totale egemonia americana, quando la maggior parte dei regimi arabi erano sostenuti dagli Stati Uniti, o tentavano di essere concilianti nei confronti di Washington per non attirarsi la sua collera; se i paesi arabi non reagiranno alla ‘nakba’ irachena, vorrà dire che gli Stati Uniti avranno raggiunto uno degli scopi della guerra, quello cioè di indebolire la solidarietà panaraba – scrive l’analista Lamis Andoni

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L’invasione americana dell’Iraq ha segnato un punto di svolta importantissimo per il mondo arabo, mentre il recente parziale ritiro americano ha suscitato un interesse particolarmente scarso nella regione. Ciò è in parte dovuto al fatto che questo evento non ha segnato la fine inequivocabile dell’occupazione né una continuazione esplicita del controllo militare americano. Tuttavia, il silenzio riflette anche l’amara realtà che molti si sono semplicemente ‘desintonizzati’ dall’Iraq.

Al momento della caduta di Baghdad nel 2003, si fecero paragoni tra questo avvenimento e la perdita della Palestina e l’espropriazione della popolazione palestinese nel 1948. Sebbene l’invasione americana non abbia portato – e nemmeno mirava – a colonizzare il paese, a cambiarne il nome o a radere al suolo le sue città e i suoi villaggi, è tuttavia riuscita a cancellare quello che un tempo era uno stato potente dal panorama politico regionale e, in questo modo, a indebolire il mondo arabo. Questa situazione ha contribuito a galvanizzare Israele e l’Iran, e ha inflitto un duro colpo al panarabismo.

Sia a livello ufficiale che popolare, gli arabi non sono riusciti a rapportarsi con, né a sostenere la popolazione irachena.

Subito dopo l’invasione, i governi arabi apparvero confusi. Alcuni giocarono inizialmente con il sentimento popolare, e dimostrarono di voler boicottare il nuovo governo insediatosi con il sostegno americano. Infine si piegarono alle pressioni americane.

L’Iraq, un paese che un tempo aveva contribuito a sostenerne altri, improvvisamente diveniva un peso economico per i propri vicini, nel momento in cui centinaia di migliaia di profughi fuggirono in Siria e Giordania. Baghdad perse il proprio status di centro dell’istruzione e della cultura per gli intellettuali, gli artisti, i poeti e i romanzieri arabi.

Questo cambiamento drastico di status portò molti iracheni a sentirsi come coloro che, un tempo ricchi, hanno perso la loro fortuna, e insieme ad essa anche i loro amici e la famiglia.

Parallelismi con la Palestina

Anche la resistenza irachena ha ricevuto scarso sostegno, e poche persone hanno apprezzato il fatto che essa abbia sventato, o almeno ritardato, ulteriori guerre nella regione. Questo punto non è sfuggito a Bill Clinton, l’ex presidente degli Stati Uniti, il quale riconobbe nel 2006 che, se non fosse stato per il fatto che l’esercito americano era impegnato in Iraq, esso avrebbe invaso altri paesi.

Nel momento in cui la linea di demarcazione tra la resistenza e la violenza settaria divenne sempre più sfumata, e il legame tra al-Qaeda e la resistenza più forte, gli arabi iniziarono a distogliere la loro attenzione dall’Iraq. Tuttavia, anche nel momento di massimo successo, la resistenza irachena non riuscì a catturare l’immaginazione araba come era successo con la resistenza palestinese molti decenni prima.

Tutto ciò è indicativo di alcune tendenze di più ampio respiro. Gli anni ‘50 videro l’emergere del nazionalismo panarabo che incoraggiava la solidarietà con i palestinesi. E sebbene i nazionalisti arabi alla fine fallirono nei loro intenti, con la sconfitta durante la guerra arabo-israeliana del 1967, la resistenza palestinese trovò un rifugio politico naturale nell’atmosfera rivoluzionaria infusa di panarabismo e anticolonialismo.

Al contrario, la resistenza irachena si è manifestata in un momento di totale egemonia americana, quando la maggior parte dei regimi arabi erano sostenuti dagli Stati Uniti, o tentavano di essere concilianti nei confronti di Washington per non attirarsi la sua collera.

Inoltre, mentre la causa palestinese sembra essere riuscita a conquistare un posto nella psiche araba, la reazione dei governi arabi all’invasione dell’Iraq è stata semplicemente una continuazione dello stato di impotenza che ha caratterizzato la regione a partire dal 1948. Dopotutto, per quanto si sia lamentato della perdita della Palestina, il mondo arabo si è dimostrato del tutto incapace o riluttante ad opporre resistenza a Israele.

Un vicino invadente

Il ruolo dell’Iran in Iraq ha reso la situazione ancora più confusa, e questo non è stato criticato in maniera adeguata da parte degli intellettuali arabi. Sviati dal sostegno iraniano ad Hezbollah, il movimento di resistenza più rispettato e più efficacie nella regione, molti arabi si sono mostrati riluttanti ad analizzare in maniera obiettiva il modo in cui l’Iran ha influenzato negativamente le forze della resistenza irachena.

Come gli Stati Uniti, che hanno fomentato la divisione tra sunniti e sciiti presentando la guerra in parte come un tentativo di liberare la maggioranza sciita perseguitata dall’egemonia sunnita, anche l’Iran ha stimolato le divisioni settarie intervenendo a sostegno diretto dei partiti settari sciiti all’interno del paese.

Molti iracheni pensano che l’Iran abbia sfruttato i governi settari di Ibrahim al-Jaafari e successivamente di Nuri al-Maliki per reprimere ogni forma di resistenza, pur indicando nella vittoria di Iyad Allawi alle elezioni di marzo la dimostrazione del desiderio iracheno di rifiutare il settarismo.

Mentre alcuni arabi hanno tacciato Allawi di essere un burattino nelle mani americane – visto che la sua storia è macchiata considerevolmente dalla propria collaborazione con l’invasione – lo scrittore iracheno Abdul Elah al-Bayati ha definito il risultato delle elezioni “un trionfo contro il settarismo” e ha affermato che esso non dovrebbe essere interpretato come una vittoria di Allawi, ma della coalizione che egli rappresenta.

L’ex baathista che si era ribellato a Saddam Hussein si è “reinventato” come leader laico e ha vinto le elezioni con un ampio sostegno popolare. E mentre coloro i quali sono vicini alla resistenza dicono di non aver dimenticato che nel 2004 egli aveva appoggiato il bombardamento americano di Falluja, essi comprendono il motivo per cui alcuni potrebbero guardare a questo politico sciita che ha buoni legami con i regimi arabi come all’uomo più adatto per evitare che il paese si disintegri sotto il peso delle divisioni etniche e settarie.

In una situazione in cui il nuovo governo non è ancora stato formato a sei mesi dalle elezioni, il mondo arabo sembra riluttante a partecipare a qualsiasi discussione seria circa il futuro del paese. Forse la condizione dell’Iraq è troppo penosa perché gli arabi possano riconoscerla per quello che è, o forse la crisi in corso nel paese è troppo complessa perché essi possano capirla. Ma la battaglia per l’indipendenza dell’Iraq è tutt’altro che terminata, e gli arabi devono iniziare a giocare la loro parte.

Se non lo faranno, gli Stati Uniti avranno raggiunto uno degli scopi della guerra, quello cioè di indebolire la solidarietà panaraba; e gli iracheni continueranno ad avere la sensazione – come mi è stato fatto notare di recente – che “nulla di ciò che facciamo sembra catturare l’immaginazione araba, e noi ci sentiamo distanti dal mondo arabo”.

Lamis Andoni è un’analista e commentatrice di questioni palestinesi e mediorientali; si occupa da 20 anni dell’OLP, ed ha intervistato tutti i principali leader del movimento

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