mercoledì 22 settembre 2010

Paradosso turco?

Il referendum costituzionale e il paradosso politico della Turchia

Il referendum costituzionale del 12 settembre scorso in Turchia ha rappresentato una nuova tappa nel lungo cammino della repubblica turca verso la piena democrazia.

La vittoria del “sì” con una percentuale del 58% ha indubbiamente segnato un’importante affermazione per il primo ministro Recep Tayyip Erdogan, dando nuovo slancio al suo partito “Giustizia e Sviluppo” (AKP) dopo le difficoltà da esso incontrate negli ultimi tempi, le quali potevano far temere una crisi di consenso per il partito.

Il referendum, che riguardava un pacchetto di emendamenti a 26 articoli della costituzione riguardanti le libertà e i diritti individuali, e la struttura dei vertici della magistratura, si è svolto in una data estremamente simbolica per la Turchia: l’anniversario del colpo di stato del 12 settembre 1980, il terzo e probabilmente più violento golpe nella storia moderna del paese, in conseguenza del quale fu redatta l’attuale costituzione.

Alla luce della decisione dell’opposizione di trasformare il voto referendario in un voto di fiducia o di sfiducia nei confronti di Erdogan e del suo partito, la vittoria del “sì” appare ancora più importante per il primo ministro e per il governo.

Tuttavia per la stessa ragione, il 42% di voti contrari non può essere sottovalutato poiché, anche se le motivazioni del “no” sono diversificate, questa percentuale indica che vi è una grossa fetta del paese che nutre una forte sfiducia nei confronti dell’AKP e della direzione che esso vuole dare alla repubblica turca.

Non bisogna poi dimenticare il forte astensionismo registratosi nelle regioni a maggioranza curda, che in alcune province ha segnato picchi del 51%. Esso testimonia il successo del partito filo-curdo “Pace e Democrazia” (BDP), il quale aveva impostato la sua campagna referendaria proprio sul boicottaggio, in segno di protesta per il fallimento della cosiddetta “iniziativa democratica”. Con quest’ultima il governo aveva annunciato, mesi fa, di voler riconoscere maggiori diritti alla minoranza curda; ma poi non aveva avuto la forza o il coraggio di portare a compimento tale iniziativa.

Tra i principali partiti dell’opposizione, il Partito del Popolo Repubblicano (CHP) guidato dal nuovo leader Kemal Kılıçdaroğlu, pur non essendo uscito vincitore, a giudizio di molti osservatori  non può certo essere annoverato fra gli sconfitti, poiché la quota del 42% dei “no” è stata raggiunta in gran parte grazie ai suoi sforzi.

Da questo confronto referendario è invece uscito malconcio il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), formazione ultranazionalista guidata da Devlet Bahçeli, che perfino nelle sue roccaforti tradizionali non è riuscita a garantire un adeguato sostegno al “no”.

Molti hanno individuato le ragioni di tale sconfitta nel modo in cui Bahçeli aveva impostato la campagna referendaria del partito, basata in gran parte sullo sforzo di dipingere il pacchetto di emendamenti costituzionali come una mossa politica essenzialmente volta a favorire il riconoscimento dei diritti dei curdi. I tradizionali sostenitori nazionalisti e conservatori dell’MHP nell’Anatolia centrale non hanno accolto questa linea, che è invece passata fra i neonazionalisti laici dell’Anatolia occidentale.

In generale, gli elettori religiosi conservatori hanno in gran parte sostenuto le posizioni dell’AKP, mentre i laici si sono in buona parte raccolti intorno al CHP. La mappa politica della Turchia in sostanza non è molto cambiata, con il CHP che ha avuto successo soprattutto sulla costa occidentale, mentre l’AKP ha avuto la meglio a livello nazionale. Nelle grandi città, il “sì” ha vinto ad Ankara ed Istanbul, il “no” a Smirne.

In sostanza, il referendum ha mostrato un paese diviso in tre: nella Tracia e nella zona costiera che si affaccia sull’Egeo ha vinto il “no”, nelle regioni dell’Anatolia centrale e del Mar Nero ha vinto il “sì”, e nel sud-est del paese ha vinto l’astensionismo.

Questo dato ha spinto alcuni osservatori a parlare di un “paradosso turco”, per cui le province tradizionalmente più cosmopolite, moderne ed istruite della Turchia hanno votato contro il progetto riformatore promosso dall’AKP, mentre le province asiatiche dell’Anatolia centrale e sud-orientale, tradizionalmente più conservatrici, hanno votato a favore (bisogna notare che nelle regioni curde, al di là dell’alto astensionismo, la schiacciante maggioranza dei curdi che si sono recati alle urne si è espressa a favore del “sì”).

Come ha scritto un commentatore turco, al di là di una minoranza laica, liberale e di sinistra, sembra che gran parte delle “persone ‘istruite’ in Turchia siano favorevoli alla tutela imposta dall’esercito, ed al controllo burocratico nelle mani dei politici laici”. Un giornale libanese – il recente referendum (come in generale tutti gli eventi della politica interna turca) è stato seguito molto da vicino dalla stampa araba – ha riassunto questo paradosso in un altro modo, con il seguente titolo: “La Turchia ‘europea’ vota contro le riforme europee, la Turchia ‘asiatica’ vota a favore”.

Alcuni hanno individuato le radici di questa apparente bizzarria della scena politica turca nella forma di “democrazia autoritaria” che fu imposta dai militari e dall’élite laica in Turchia a partire dal golpe del 1960. Questo modello autoritario ambiva a “modernizzare” la Turchia attraverso l’applicazione di pratiche dispotiche, e soprattutto emarginando – e addirittura definendo come “minacce per lo Stato” – importanti segmenti della società, come i musulmani conservatori, i curdi e i non musulmani.

Come scrive il giornalista turco Mustafa Akyol, un manipolo di intellettuali liberali aveva individuato le falle di questo sistema politico già negli anni ’90, proponendo la nascita di una “Seconda Repubblica” basata invece sulla libertà e l’eguaglianza.

Tuttavia l’appoggio popolare necessario a portare avanti una simile agenda politica cominciò a materializzarsi solo con l’avvento del nuovo millennio, di pari passo con lo sviluppo dell’Anatolia interna e con l’affermarsi di una borghesia musulmana urbana.

La storia di successo dell’AKP è il risultato di queste trasformazioni. “Questo partito ‘islamico’ – scrive Akyol – dimostrò di essere più dedito alla causa dell’Unione Europea rispetto ai suoi rivali laici, perché la sua base musulmana aveva molto sofferto sotto lo status quo” rappresentato dall’autoritarismo turco.

Ciò spiega anche l’alleanza tra l’AKP di ispirazione “islamica” ed alcuni liberali laici. Il grosso interrogativo che riguarda il futuro politico della Turchia è dunque – sempre secondo Akyol – il seguente: vi è la possibilità che emerga una versione laica dell’AKP o, in altre parole, un partito riformista privo dell’inclinazione religiosa dell’AKP?

A questo proposito, alcuni ripongono le loro speranze nel nuovo leader del CHP Kılıçdaroğlu. Altri rimangono invece scettici poiché ritengono questo partito troppo legato al passato kemalista, e poco propenso ad abbracciare una visione più egualitaria e democratica.

Un aspetto paradossale del CHP sta nel fatto che la richiesta di adesione della Turchia all’UE fu avviata proprio da questo partito, con l’accordo di Ankara del 1963. Attualmente, però, esso sembra scarsamente entusiasta nei confronti del processo di avvicinamento all’Unione, che invece è stato portato avanti e sostenuto dall’AKP. Allo stesso modo, il CHP non ha appoggiato altre iniziative di politica estera dell’AKP, come il riavvicinamento con l’Armenia.

Al “paradosso turco” ha fatto da contraltare, negli ultimi anni, un “paradosso europeo”, in base al quale la Turchia del partito “Giustizia e Sviluppo” – i cui sforzi di democratizzazione sono sempre stati incoraggiati dall’UE – ha cominciato ad essere vista con crescente sospetto in Europa, mentre il suo processo di adesione è stato osteggiato in maniera sempre più aperta.

L’Europa ha dimostrato di avere difficoltà ad interpretare correttamente  il “caso turco”, in cui forze laiche e socialdemocratiche hanno mostrato di avere un approccio autoritario e di considerare le minoranze etniche e religiose come “minacce alla sicurezza nazionale”, mentre un partito di ispirazione islamica come l’AKP si è fatto portavoce, seppure con alcune incertezze, di istanze di cambiamento e di democratizzazione.

In generale, l’Occidente spesso ha dimostrato di ritenere che le società islamiche non siano in grado di adottare un modello di democrazia liberale. Nel caso della Turchia, molti in Europa nutrono sospetti sulle intenzioni a lungo termine dell’AKP, temendo che esso intenda alterare il carattere laico della repubblica turca attraverso una sua progressiva islamizzazione.

In realtà – hanno osservato alcuni – se dei partiti cristiani conservatori sono riusciti a diventare democratici, nulla impedisce che dei musulmani facciano la stessa cosa. Tuttavia i sospetti nei confronti dell’AKP permangono in molti ambienti europei.

Questo “processo alle intenzioni” nei confronti dell’AKP, che si concentra sull’ “agenda nascosta” che guiderebbe le scelte politiche di questo partito, viene del resto riproposto in maniera pressoché identica dall’élite laica e kemalista in Turchia.

Essa accusa l’AKP di voler sostituire alla “dittatura militare” una “dittatura civile” guidata dall’esecutivo, e di attentare al carattere laico dello Stato.

Alcuni osservatori in Turchia hanno tuttavia fatto rilevare che questo “processo alle intenzioni” porta in un vicolo cieco, poiché conduce alla formulazione di accuse che non sono dimostrabili né confutabili, proprio perché attengono all’ambito delle “intenzioni”.

Costoro suggeriscono di giudicare piuttosto il ruolo storico e politico  ricoperto dall’AKP, analizzando il cammino intrapreso dalla Turchia sotto la guida di questo partito – un cammino che ha portato il paese verso lo sviluppo economico, verso una maggiore democrazia, e verso un ridimensionamento dello strapotere dell’esercito.

E’ opinione di molti che, al di là delle sue “intenzioni”, l’AKP incarni il forte desiderio di “cambiamento” presente oggi nel paese, un desiderio che trascende le politiche dell’AKP stesso. I risultati del referendum del 12 settembre lo testimonierebbero: il 58% di “sì” va ben al di là del sostegno espresso al partito di Erdogan, e sta a indicare la forte volontà di riforme presente nel paese.

Lo confermerebbe anche un’altra osservazione: gli emendamenti costituzionali si uniformano a delle precise direttive europee, e sono stati definiti dal governo turco come un’ulteriore tappa lungo il cammino di riforme che la Turchia deve percorrere per entrare nell’Unione. Essi sono stati salutati dall’UE come “un passo nella giusta direzione”. Tuttavia, come risulta dal recente rapporto “Transatlantic Trends”, il sostegno dei turchi all’adesione all’UE è in continuo declino: ormai solo il 38% è favorevole, rispetto al 73% del 2004. La vittoria referendaria del “sì” con una percentuale del 58% sta dunque ancora una volta ad indicare un desiderio di riforme che va al di là della prospettiva di entrare in Europa, o delle politiche dichiarate dal governo.

Secondo diversi analisti turchi, il fatto che, dopo otto anni al potere, l’AKP sia ancora alla guida della richiesta di cambiamento in Turchia non dovrebbe essere considerato tanto come un successo del partito, quanto piuttosto come un fallimento dell’opposizione, se si tiene conto che il desiderio di cambiamento normalmente viene incarnato proprio da quest’ultima, in qualsiasi democrazia.

Il fatto che dopo otto anni di governo, e pur non avendo realizzato tutte le sue promesse, l’AKP venga ancora considerato dalla maggioranza dell’elettorato turco come la miglior garanzia di un’evoluzione democratica del paese sta a indicare che l’opposizione non è riuscita a costruire un’alternativa democratica credibile.

Come dimostra il risultato del referendum, tuttavia, il panorama politico turco rimane caratterizzato da un’aspra polarizzazione, che appare a molti difficilmente conciliabile.

Nessuna polarizzazione esisteva in passato in Turchia – ha osservato l’accademico Cengiz Aktar – poiché esisteva un unico polo, un’unica ideologia fondante che propugnava un’armonia immaginaria. Qualsiasi gruppo o individuo che potesse alterare quest’armonia fittizia era visto come un nemico. La polarizzazione attuale è invece il risultato di più poli che si confrontano – un elemento che è alla base della democrazia. Ma la corretta gestione di questo confronto è la maggiore sfida che attende la Turchia nell’immediato futuro.

E’ opinione di molti che per vincere questa sfida occorra che tutte le parti in causa decidano consapevolmente di smorzare i toni, e si impegnino ad avviare un dialogo costruttivo. Sembra assodato che gli emendamenti appena approvati costituiscano solo un passaggio interlocutorio verso l’approvazione di una nuova costituzione. Una compiuta riforma costituzionale ha tuttavia bisogno di un vasto consenso per essere sostenibile.

Numerosi analisti ritengono pertanto che il partito di governo debba utilizzare i prossimi mesi per verificare se esiste la possibilità di iniziative comuni con i principali partiti dell’opposizione (soprattutto con il CHP), e per avviare un dialogo con la formazione filo-curda del BDP.

I temi più scottanti da affrontare, e sui quali cercare delle convergenze, saranno la nuova costituzione e la questione curda. In particolare sarà necessario ridefinire il concetto di cittadinanza ed il principio della separazione dei poteri, e riconoscere i diritti delle minoranze.

L’AKP ha certamente fra le sue priorità la riforma costituzionale, ed è probabile che cercherà di dare nuovo impulso all’ “iniziativa democratica” a favore dei curdi. Sembra anche che esso abbia l’intenzione di sostituire l’attuale regime parlamentare con un regime presidenziale, con l’obiettivo di garantire una maggiore stabilità politica.

Quest’ultima mossa rischia tuttavia di rinfocolare le paure dell’opposizione, la quale potrebbe temere che tale mossa rappresenti un ulteriore tentativo di far prevalere il potere politico sul potere giudiziario e sull’esercito, creando un sistema presidenziale in cui la carica di presidente – dotata di ampi poteri – rimarrebbe di fatto in mano all’AKP per gli anni a venire.

Come ha osservato Cengiz Aktar, ciò che la Turchia deve discutere e risolvere “sono i difetti dell’attuale regime, piuttosto che il regime in sé”. Il nodo essenziale – sostiene Aktar – non è l’insufficiente potere dell’esecutivo, ma quello dell’equilibrio dei poteri, e della creazione di un sistema di pesi e contrappesi che permetta di bilanciare il potere esecutivo con il potere legislativo, affrancandolo allo stesso tempo dalla tutela dei militari. “In altre parole, il punto essenziale è l’assenza di una costituzione liberale e democratica”.

I prossimi mesi ci diranno se il governo guidato da Erdogan sarà in grado di rispondere a queste sfide, evitando che l’attuale polarizzazione nel paese sfoci in uno scontro più aspro.

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