30/09/2010
Original Version: Kashmir: An Escalating Tragedy with Global Implications
E’ ora che la comunità internazionale presti attenzione alle sofferenze del Kashmir, sostenendo la sua società civile di fronte alle azioni repressive ed alle violazioni delle forze di sicurezza indiane, al fine di scongiurare una ripresa della militanza e dell’estremismo in Kashmir e nell’intera regione dell’Asia meridionale – scrive l’attivista kashmiro Mohsin Mohi-Ud Din
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Per secoli la tossica combinazione di impotenza ed umiliazione ha dato origine a violente rivolte in tutto il mondo. Gli estremisti in Asia meridionale e in Medio Oriente possono contare su un significativo capitale umano, impotente e frustrato, e sfruttarlo per i propri fini violenti. Oggi in Kashmir una generazione di giovani si trova in un clima socio-politico simile a quello dell’Afghanistan dell’era post-sovietica. Negli anni ’90 la militanza frammentata, sostenuta dal Pakistan, e la brutale campagna indiana contro di essa provocarono la morte di più di 70.000 persone.
Quando una società civile subisce ripetuti attacchi da parte degli apparati dello stato – mentre la comunità internazionale resta indifferente agli abusi subiti dalla popolazione locale – quest’ultima, alienata e indifesa, alla fine soccomberà alle divisioni provocate dalla violenza e dalla mancanza di giustizia e di responsabilità sociale. In questo modo le persone diventeranno vulnerabili ai mezzi di espressione estremi e violenti. Mentre le forze di sicurezza indiane aprono il fuoco sulla società civile del Kashmir, i militanti separatisti nella valle e nei campi di addestramento sulle montagne troveranno gli elementi di cui hanno bisogno per mobilitare una gioventù stufa e stremata verso una rinnovata campagna di militanza, amplificando quindi la violenza in una regione che già combatte l’estremismo di al-Qaeda e dei Talebani nei vicini Pakistan e Afghanistan. Nonostante i proiettili e i bastoni delle forze di sicurezza indiane, il popolo del Kashmir, e la sua società civile, continuano a marciare – non a compiere attentati – per ottenere giustizia e responsabilità sociale. Tuttavia, per quanto tempo la comunità internazionale continuerà ad ignorare gli appelli della società civile del Kashmir? E per quanto tempo ancora la società civile del Kashmir potrà sopportare?
I militanti e le forze di sicurezza dello stato vogliono che gli sforzi della società civile falliscano. Ma questa volta ci sono due possibili misure per alleviare il problema: l’India (una potenza internazionale in ascesa con una recente, ma ricca, storia democratica) deve rendere l’esercito e la polizia perseguibili per le loro esecuzioni extragiudiziali e gli abusi che a partire da giugno hanno tolto la vita a più di 100 persone in Kashmir. L’esercito deve riformare le norme sulla sicurezza, che attualmente consentono alle forze di sicurezza di commettere violazioni dei diritti umani senza temere azioni penali nei loro confronti, e senza essere perseguite. Queste misure che contribuiscono a creare fiducia incoraggerebbero la comunità a partecipare alle istituzioni non violente e alle istituzioni della società civile. In effetti, ciò aiuterebbe la sfiduciata popolazione kashmira e ridurrebbe il capitale umano frustrato e impotente in cui i militanti e gli estremisti trovano terreno fertile. Inoltre, la comunità internazionale (guidata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU o dall’Unione Europea) non deve lasciare che la società civile del Kashmir, sanguinante e ferita, rinunci ai propri sforzi non violenti per ottenere maggiori diritti umani, giustizia e responsabilità sociale.
Anche se una delegazione di oltre 30 parlamentari indiani è giunta in Kashmir la scorsa settimana per valutare “la situazione della valle”, i parlamentari indiani sono arrivati in Kashmir senza alcun mandato preciso, e senza fare riferimento agli oltre 100 manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza dello stato. Hanno incontrato tre leader separatisti che si trovano agli arresti domiciliari. I leader separatisti hanno semplicemente rigurgitato le loro piattaforme politiche e non hanno offerto nessun piano per un’eventuale risoluzione. Non c’è stato alcun progresso. Costoro avrebbero dimostrato più buona volontà se avessero fatto visita alle famiglie i cui figli sono stati uccisi in seguito alla violenta repressione contro i manifestanti da parte delle forze di sicurezza. I parlamentari indiani in visita dovrebbero esigere che vengano condotte delle indagini nei confronti delle forze militari che hanno sparato su una folla di manifestanti civili.
Nelle mie recenti conversazioni con i kashmiri sotto coprifuoco militare a Srinagar, una ragazza mi ha detto: “Non c’è nulla qui. Né scuola, né latte, né vita. Da tre mesi siamo prigionieri nelle nostre case. Ci sentiamo come se fossimo dei malati mentali rinchiusi in un istituto”. Questa ragazza mi ha raccontato che al ritorno dall’ospedale è stata sconvolta nel vedere ragazzi coperti di sangue e uomini disarmati picchiati dalle CRPF (Central Reserve Police Force) con bastoni ed armi. Ho chiesto il motivo per cui i ragazzi del suo quartiere stavano protestando. La ragazza kashmira mi ha detto che i soldati indiani stavano molestando alcune donne per strada davanti a casa sua, e i vicini si sono sentiti provocati e hanno voluto ribellarsi. Che siano stati provocati o meno in questa occasione particolare, resta il fatto che i giovani del Kashmir hanno sangue sui loro volti e pallottole nella loro carne.
Che si tratti di indiani, pakistani, kashmiri, di musulmani, indù, sikh, o di pandit del Kashmir, resta il fatto che tutte le parti sono in qualche modo colpite dal conflitto in corso in questa regione. I pandit del Kashmir, ad esempio, hanno subito sconvolgimenti di massa a causa della militanza del 1989. Negli anni passati oltre 70.000 musulmani kashmiri hanno perso la vita e 8.000 risultano dispersi. I militanti separatisti, benché il loro numero oggi sia in calo, hanno causato più male che bene quando lanciavano granate nei mercati e colpivano civili nei conflitti a fuoco con i soldati. Tutti i giorni ogni singolo soldato indiano teme per la propria vita. I soldati rimangono legati alle brutali tattiche di contro-insurrezione dell’apparato militare indiano, in cui i kashmiri sono trattati come terroristi. Le azioni delle forze di sicurezza rivelano un totale disprezzo per il diritto della popolazione alla vita e alla libertà di movimento.
Potrei continuare a parlare di coloro che sono stati colpiti dal conflitto. Ma non lo farò. Non adesso. Voglio parlare delle tragedie e delle minacce che stanno avendo luogo in questo momento. Parlo delle madri del Kashmir che piangono i loro figli uccisi, di studenti rinchiusi in casa e privati dell’istruzione, e del padre kashmiro che viene picchiato dalla polizia per aver violato il coprifuoco solo perché voleva comprare del latte per nutrire i suoi figli affamati. Non cadiamo in errore, le persone che vengono uccise oggi (i giovani del Kashmir) non imbracciano armi. Portano pietre, cartelli, e le bare degli innocenti assassinati. (Quei pochi manifestanti che appiccano il fuoco alle infrastrutture devono mettere fine a queste azioni che ostacolano ulteriormente gli sforzi compiuti per sviluppare quelle poche infrastrutture che esistono in Kashmir).
I recenti eventi ci dimostrano che viviamo in un’epoca storica in cui ciò che accade in una piccola chiesa in Florida può provocare disordini e morte in Afghanistan. Allo stesso modo, ciò che accade in una valle di promesse non mantenute in India inciderà direttamente sulla sicurezza interna dell’Europa e dell’America, i cui sforzi nella lotta al terrorismo e la cui diplomazia sono vitali per la pace e la sicurezza in Asia meridionale. Pertanto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, guidato dagli Stati Uniti o dagli stati membri dell’Unione Europea, deve esercitare pressione sull’India affinché cessi la sua violenta repressione nei confronti della società civile del Kashmir e apra delle indagini sull’uccisione di oltre 100 persone a partire dal mese di giugno.
Se tali misure non saranno prese, la popolazione del Kashmir sarà scoraggiata dall’adottare un approccio politico e giuridico per esprimere le sue lamentele. In Kashmir, essa marcia per i diritti umani, non per il terrorismo. Marcia per ottenere giustizia e responsabilità sociale, non nuovo estremismo. Questo è il momento in cui i kashmiri marciano per attirare l’attenzione delle istituzioni globali, e di quegli stati che si presentano come paladini della giustizia e dei diritti umani. E’ giunto il momento di legittimare la società civile del Kashmir e sostenerla, altrimenti rischiamo di perdere l’occasione di frenare in modo efficace una violenta ripresa della militanza e dell’estremismo in Kashmir e nell’intera regione dell’Asia meridionale.
Mohsin Mohi-Ud Din è un attivista kashmiro-americano
venerdì 1 ottobre 2010
Kashmir: una crescente tragedia con implicazioni globali
via medarabnews.com
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